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Papa Francesco: «C'è già troppa frociaggine». Il no ai seminaristi gay nell'assemblea con i vescovi italiani
diGian Guido Vecchi
Durante l'assemblea della Cei, Papa Francesco ha parlato dell'ammissione dei seminaristi, invitando i vescovi a non ammettere quelli dichiaratamente gay. Secondo i vescovi sentiti dal «Corriere», era evidente che il pontefice non fosse consapevole di quanto la parola sia offensiva in italiano
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CITTÀ DEL VATICANO - La voce circolava da una settimana, un paio di giorni fa ne aveva scritto Dagospia, il sito di «retroscena» curato da Roberto D’Agostino, e a quel punto, con sospiri un po’ rassegnati, sono arrivate le conferme: il Papa che usa la parola «frociaggine».
È successo il 20 maggio, nell’incontro a porte chiuse tra Francesco e i vescovi italiani arrivati a Roma per l’assemblea generale. Si parlava di un tema molto serio, che occupa da tempo la Cei: se e in che misura ammettere nei seminari dei candidati al sacerdozio omosessuali. E Francesco, pur ribadendo la necessità di «accogliere» tutti, a un certo punto ha cercato di dirlo a modo suo, in tono colloquiale: «Nei seminari c’è già troppa frociaggine».
Un incidente (per il quale, martedì 28 maggio, il Pontefice si è poi scusato), ma di quelli che fanno il giro del mondo, con proteste inevitabili delle associazioni per i diritti Lgbtq. Alcuni vescovi spiegano al Corriere che l’uscita del Pontefice è stata accolta con qualche risata incredula, più che imbarazzo, tanto era evidente la gaffe di Bergoglio: l’italiano non è la sua lingua madre, quand’era ragazzo in famiglia parlavano più che altro il piemontese e insomma era evidente che Francesco non fosse consapevole di quanto nella nostra lingua la parola sia greve e offensiva. Qualche cosa di simile era capitato al cardinale Victor Mánuel Fernandez, anch’egli argentino e prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, che dieci giorni fa, presentando le nuove regole sulle apparizioni, si era lasciato sfuggire un «fare delle cazzate».
Al di là dell’espressione, resta la questione dell’ammissione degli omosessuali al sacerdozio. La linea, finora, è sempre stata quella tracciata nel 2005 da una «Istruzione» vaticana «circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali»: si dice che non possono essere ammessi «coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay».
La Cei ha approvato a novembre, nell’assemblea di Assisi, un testo per l’ammissione ai seminari, Ratio formationis sacerdotalis, ancora non pubblicato perché si attende il via libera della Santa Sede. Tra i criteri, con non poche opposizioni, avevano approvato a maggioranza un emendamento che manteneva la distinzione tra il semplice orientamento omosessuale e le «tendenze profondamente radicate», con spirito di maggiore apertura. In sostanza, si dice che il problema non è la tendenza ma la pratica, gli «atti».
Anche un omosessuale può essere ammesso se mostra di aver fatto «una scelta seria» di castità. È a questo punto che Francesco, quando gliene hanno parlato, se ne è uscito con quello che appare un «no» radicale. Anche se, a sentire i vescovi, non si è capito bene fino a che punto il «no» del Papa fosse categorico o si riferisse solo a chi non è riuscito a mantenere l’impegno alla castità.
La notizia ha suscitato le reazioni, opposte, della politica: «E chi mi dava dell’omofobo?», il commento di Roberto Vannacci, candidato con la Lega. «Non c’e’ troppa frociaggine, ma troppi omofobi», per il dem Alessandro Zan.
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